Le interviste possibili: ANGELO FLORAMO

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L’intervista possibile di questa settimana l’abbiamo dedicata al simpaticissimo Angelo Floramo.
D: Caro Angelo, inizio con una domanda che si può fare solo a uno scrittore: qual è la tua parola preferita?
R: Ma che incipit favoloso Anna! Difficile la risposta perché siamo fatti di parole. Che sono aria modulata in musica, come diceva Isidoro di Siviglia. Ora non metterti a ridere ma tra le tante, tra tutte, dovendo proprio scegliere, ti direi “pane”. Perché nel momento in cui ne gusti il suono in bocca ne assapori il profumo, la fragranza, la semplice bontà. “Pan” in greco significa “tutto”. E per me è un tutto sacro, umile, ancestrale. Una sinestesia perfetta. Perché è una parola con un odore e un sapore. Sa di buono e di povero. Di essenziale. È anche una parola capace di confondere ogni umana logica: è fresco quando è caldo, appena sfornato. È l’anima della casa. Quando ti innamori di qualcuno vorresti preparargli il pane. E la fisica voluttà delle mani che impastano, accarezzano, stringono, è quasi l’allegoria di un abbraccio amoroso. Curioso, vero? Il pane si spezza, non si taglia. Si condivide con i compagni della tua vita. Che etimologicamente parlando sono quelli che dividono con te il pane, appunto. E dunque tutto.
D: Ci sono degli autori che sono inevitabilmente associati a un luogo e che con le loro storie lo rivestono di un che di mitico: l’America rurale di Lansadale, la Parigi di Simenon, la Londra di Dickens… per te sono i Balcani e la frontiera. Quanto per te sono luogo di letteratura e quanto luogo reale?
R: I Balkani (posso scriverli con la kappa?) sono per me un luogo dello spirito, una proiezione dell’anima. Li sento come una suggestione profonda che non riesco a razionalizzare. Evocano dentro di me profondissime malinconie e improvvisi scoppi di risa, labbra da baciare e colli di bottiglia da asciugare. Matrimoni e funerali, per rubare un’immagine a quel brigante di Emir Kusturica. Sono il canto e il pianto. Il fuoco acceso nella notte, per arrostire in cerchio storie che vengono da orizzonti lontani e ascoltarle fino alla rugiada del mattino. E poi pur essendo plurali (la Croazia non è certo la Bulgaria, la Grecia non è affatto la dorsale Dinarica) conservano un’identità di fondo che li attraversa, tanto che li riconosci subito, anche se mutano le lingue, gli accenti, i paesaggi. Per quanto mi riguarda poi non riesco più a capire se la scaturigine dell’emozione che mi prende venga da una pagina di Miloš Crnjanski o dall’ultimo villaggio serbo in cui mi sono lasciato convincere che la Rakija, come la fanno lì, non viene da nessun’altra parte del mondo. Ma non importa. I confini tra la letteratura e la vita sono così labili! Leggiamo perché l’esperienza reale abbia più sugo. E negli autori che amiamo cerchiamo sempre di ritrovare qualcosa che anche noi, come loro, abbiamo già visto, da qualche parte.
D: Se tu dovessi partire per un viaggio picaresco attraverso i luoghi della tua narrativa con due personaggi letterari (i viaggi picareschi si fanno in tre) chi sceglieresti come compagni di viaggio?
R: Chiederei a due donne, su questo non nutro dubbio alcuno. Perché posso dirlo per provata esperienza che siete anime creative, adattabilissime, pronte alla digressione e assolutamente capaci di affrontare con invidiabile buon senso anche le situazioni più improbabili e strane. Non mi è mai successo di innervosirmi o di rovinarmi un’avventura, con una compagna di viaggio. Cosa che invece è capitato con i “maschietti”. Ora però bisogna scegliere e questo è il punto. Valgono anche i fumetti (ne sono un divoratore da sempre!)? Se sì allora il mio primo voto è per Valentina Rosselli, nata dalla matita impareggiabile di Guido Crepax. Intanto sa fotografare da dio, e quindi il reportage di viaggio sarebbe assicurato. E poi non rinuncia al sogno. Sa andare con grazia e discrezione oltre quella porta socchiusa che distingue il vero dal probabile. Non c’è avventura che possa fare a meno di questo istinto primordiale che trasforma alla fine ogni viaggio in un’esplorazione dei propri fantasmi e delle innominabili inquietudini che si agitano dentro di noi. L’altra? Forse la Miriam che Mordecai Richler ci regala ne “La versione di Barney”. Perché è il prototipo di tutte le donne che ci hanno lasciato, quelle che non potremo mai dimenticare, di cui continuiamo ad essere profondamente innamorati e alle quali vorremmo avere il coraggio di chiedere un giorno: “Che ne dici di accompagnarmi in un viaggio improbabile?”. Così, tanto per vedere la loro reazione.
D: Quale musica appartiene alla tua scrittura?
R: La musica è come un paesaggio. Vai a cercare quella che in un determinato momento corrisponde al tuo “mood”. Al colore dei tuoi pensieri. E così quello che scrivo – immagino - ha un suo ritmo, una vibrazione particolare che entra in consonanza con gli ambienti, i personaggi, gli oggetti che rimangono impigliati nel setaccio di una storia. Amo moltissimo la musica in generale. Da quella classica a Francesco Guccini. Sono un manico di quella antica. Medievale, per intenderci. Ed essendo la mia scrittura profondamente errante, o almeno aspirando ad esserlo, potrei dirti che la produzione incredibile dei chierici vaganti è quella che più si avvicina alla sensibilità che mi vibra dentro. Vi si canta il mondo con gli occhi di un’umanità minore: sono studenti e professori quelli che compongono la musica e scrivono i testi. Ma non lo fanno nelle aule del Sapere. Preferiscono i banconi pregni di vino delle osterie di strada. Amano le vie meno battute, quelle tutte polvere e dall’anima randagia, ribelle e anarchica. Sono consapevoli che si possa raccontare l’Eros di Ovidio anche alzando un coccio pieno di vino cattivo, purché lo si condivida assieme ai compagni di viaggio. Non mi vergogno nel confessarti che ogni anno obbligo i miei studenti (un giorno verrò condannato per questo, lo so!) ad imparare qualcuno di questi antichi canti. E poi li eseguiamo insieme nei luoghi più improbabili. Mi regala un’emozione forte. Lo spazio e il tempo si annullano. Siamo viatores, impariamo insieme strada facendo.
D: Ci racconti qualcosa del libro che vorresti tantissimo scrivere e che non hai (ancora) scritto?
R: I miei studenti a questo punto direbbero: “tu vuoi farmi spoilerare eh?”. Ne ho molti nel cassetto. Sono storie che rimangono lì, non scritte ancora, ma in attesa di esserlo. Per lo più sono sogni, visioni. Non vedranno mai la stampa, ne sono più che convinto. Una in particolare si annida da un po’, mi tenta, mi stuzzica ma proprio per questo la temo. Una storia estrema, di un amore malato (lo sono un po’ tutti, però, gli amori), per questo disperato. I protagonisti sono un giovane artista (un poeta? Un fumettista?) e una donna più matura. Due vite che si sfiorano lungo gli intrecci di una terra di frontiera. Mi piacerebbe che Ljubljana e Gorizia facessero da sfondo al racconto. No, più che sfondo. Perché hanno un’anima tragicamente bella, quelle città, tanto che diventerebbero la proiezione dei due amanti. Spiriti inquieti che si fanno male perché amano con disperazione. Basta, mi sto allargando troppo e vista la mia tendenza all’adipe è meglio non rischiare oltre.
D: Immaginiamo: è notte, piove, fa freddissimo e ti sei perso… da lontano vedi le luci di un’osteria. Sull’insegna che oscilla nel vento leggi che si chiama Osteria delle Storie Perdute e la cosa naturalmente ti mette in allerta. Entri curioso e scopri un bel fuoco caldo e ti accorgi che seduti ai tavoli di legno ci sono solo personaggi letterari: chi sono?
R: Ma che meraviglia! È il sogno di tutti, quello di vivere un’avventura del genere. Allora vediamo come potrebbe andare: entro. L’ambiente è tiepido e accogliente. Un fuoco brilla crepitando e diffonde nell’aria un profumo di resina, che sa di buono. Mai quanto quello dei sughi che promana dalla cucina, ovviamente. Il locale, per quanto piccolo, è gremito di avventori e il vociare è allegro, sostenuto. Ad un tavolo Long John Silver (lo riconosco dal pappagallo Flint e dalla gamba di faggio), visibilmente sfatto, sta intonando canzonacce volgari, da filibusta, attorniato dalla peggiore fra tutte le ciurme mai raccolte nelle stamberghe di mare. Cerca invano di fare colpo, questo è evidente, su Lisbeth Salander, che appollaiata su di uno scranno al bancone, persa nel suo chiodo di pelle nera, sta scolando il suo terzo bicchiere di “chinotto”. Ma pare che abbia occhi umidi e persi più per quella dark di Lady Macbeth: dalla penombra dell’angolo più riposto non fa altro che lanciarle occhiate complici e lubriche. Ad un tratto si apre la porta della cantina ed esce Gargantua, alto reggendo una botte di Madera: “Il primo sorso per chi sa dirmi come si prepara un buon piatto di rognoni”, dice con voce di pancia: “Alla griglia. Una girata e una voltata, niente di più”. È Leopold Bloom a parlare. E avendo tacitato tutti gli altri si alza con un bicchiere vuoto in mano, dirigendosi verso il godimento della meritata vittoria.
La seconda parte della bella intervista ad Angelo Floramo verrà pubblicata martedì 2 giugno. E si parlerà di una Sharazad scivolata fra le pagine, di una cena in compagnia di Cyrano de Bergerac e di tante altre cose… non perdetela!